La ricetta del cinghiale alla toscana è sicuramente uno dei piatti tipici regionali più apprezzati, una prelibatezza che conquista tutti al primo assaggio e che valorizza il piacere per i sapori intensi e genuini e per la cucina contadina.
Che vino abbinare al cinghiale alla toscana:
Tra i vini che potresti abbinare al cinghiale alla toscana, ce ne sono due prodotti nella mia Tuscia da due aziende che mi fanno l’onore di essere sponsor del Divin Mangiando, una gara gastronomica che ogni anno organizzo nel mese di agosto: il Soremidio della Tenuta Sant’Isidoro ed il Santa Maria Nasso dell’Azienda Agricola Giorgini.
Il primo è un vino rosso di grande struttura che rappresenta uno dei fiori all’occhiello di questa Tenuta, nata alla fine degli anni ’30, e che si estende lungo la costa della Maremma Laziale per quasi 1000 ettari. Da tre generazioni la Tenuta Sant’Isidoro viene gestita dalla famiglia Palombi, che ha sempre avuto come obiettivo quello di voler valorizzare un territorio ad alto potenziale vitivinicolo ed agricolo, sempre nel rispetto della natura e dei suoi ritmi biologici.
Un’azienda che, grazie al clima mite della città di Tarquinia e delle sue colline, ha imparato a sfruttare i terreni agricoli per coltivare frutta, verdure ed ortaggi che poi ha saputo trasformare in confetture e sottoli. Ma il fiore all’occhiello rimangono i suoi vini che, grazie alle più moderne tecnologie di coltivazione e vinificazione delle uve, sono arrivati oggi ad avere livelli di eccellenza. Il Soremidio è un vino dal quadro aromatico complesso, frutto della ricercatezza e dell’attenzione che, chi si occupa della sua produzione, mette in ogni fase della lavorazione, dalla cura del vigneto, alla vinificazione ed all’invecchiamento di questo rosso nelle botti di rovere francese. Dal colore rosso rubino cupo con un’unghia violacea, il Soremidio è un vino che, al naso, ha sentori di confettura di frutti rossi maturi, prugna e frutti di bosco, sottobosco e macchia mediterranea mentre in bocca è perfettamente percepibile la sua grande struttura, arricchita dai sentori di liquirizia e tabacco con un finale energico e persistente.
Questo rosso può accompagnare, oltre a questa mia ricetta del cinghiale alla toscana, tutti i secondi di carne molto saporiti e la selvaggina di piuma e pelo ed anche i formaggi di media e lunga stagionatura; viene servito ad una temperatura tra i 18 ed i 20° e può essere sorseggiato anche da solo come vino da meditazione.
In alternativa al Soremidio, puoi scegliere un altro rosso delle mie zone come il Santa Maria Nasso dell’Azienda Agricola Giorgini. Anche quest’azienda è immersa nelle colline intorno a Tarquinia e tutti quelli che la visitano non possono non rimanere incantati davanti ai meravigliosi panorami: da non perdere quello che si spalanca sulla Valle del Mignone. Nata negli anni ‘50 come azienda prettamente vinicola, da qualche anno ha ampliato la propria produzione ed è possibile assaggiare ed acquistare cibi e bevande di alta qualità, tutti prodotti al suo interno. Inoltre è possibile visitare la tenuta, seguire i processi produttivi e partecipare a corsi di degustazione.
Il livello dei suoi vini, però, non ha risentito di questa diversificazione e la prova lampante è proprio il Santa Maria Nasso, un vino le cui uve vengono selezionate manualmente e la cui fermentazione sulle bucce viene effettuata a temperatura controllata per circa 12 giorni. Dopo la svinatura e la prima fermentazione, prima viene travasato per alcuni mesi in barriques e poi è affinato ulteriormente in bottiglia, prima di essere commercializzato. Dal colore rosso rubino scuro e profondo, è un vino che si abbina perfettamente ai piatti di cacciagione e carni rosse, grazie ai suoi caratteristici ed intensi sentori di frutti di bosco e confetture, legni balsamici, cioccolato e tabacco ed al suo sapore caldo che sfuma in una dolce tostatura di cacao.
La Tuscia ed il cinghiale una storia antica
La Tuscia è sempre stata, sin dall’antichità, una terra di caccia ed è forse per questo che le prime ricette che ho imparato a preparare erano a base di cacciagione. E cucinare il cinghiale è sempre stata una delle mie preferite.
Sia nel mondo etrusco che in quello greco le scene di caccia le troviamo nelle raffigurazioni sui vasi, il che suggerisce che tale pratica avesse, nell’antichità, anche un significato religioso, per cui alcune divinità, come Artemide/Diana, venivano ad essa associate.
Per gli Etruschi la caccia alle grandi prede era soprattutto espressione delle classi elitarie e una riprova di questo la troviamo nelle pitture della necropoli dei Monterozzi a Tarquinia, mi riferisco agli affreschi della “Tomba del Cacciatore” o a quelli della “Tomba della caccia e della pesca”, dove vengono raffigurate scene sia di caccia che pesca, quest’ultima praticata dalle classi meno abbienti. Quei dipinti, oltre ad indicare lo status sociale del defunto, si pensa fossero di buon auspicio per il suo passaggio dalla vita terrena all’aldilà.
La caccia era, quindi, un simbolo di uno status sociale: i membri delle famiglie gentilizie si dedicavano a quella delle grandi prede come il cinghiale, ma anche cervi e daini, utilizzando, per catturarli, reti e armi da lancio. Solitamente era un’attività che iniziava all’alba ed i cacciatori, dopo aver posizionato le reti, facevano percorrere l’area dove pensavano ci fossero gli animali da dei battitori che, servendosi di flauti e aizzando i cani, provocavano dei rumori in modo tale da indirizzare l’animale verso le reti, dove poi veniva abbattuto con lance e frecce.
Il popolo invece, come già accennato, si dedicava alla pesca e, per il sostentamento quotidiano, allevava animali da cortile oppure cacciava animali di piccola taglia come uccelli, volpi, istrici e ghiri. Di questi ultimi roditori erano particolarmente ghiotti i Romani che, per nutrirli ed allevarli, possedevano dei “glirari”, ovverosia dei grossi vasi che avevano dei fori sulle pareti per la circolazione dell’aria e una sorta di coclea all’interno, su cui l’animale scorrazzava.
Nell’epoca romana, la caccia venne considerata anche uno svago ed un esercizio fisico per le classi benestanti, tanto che furono i ricchi senatori romani i primi ad istituire le riserve di caccia: sappiamo infatti da Plinio che il primo senatore romano a possederne una fu Quinto Fulvio Lippino, “in agro tarquiniense”, cioè nel territorio di Tarquinia.
Nel corso dei secoli la caccia, oltre a continuare ad essere un mezzo di sostentamento, in particolare nel Medioevo, quando fu fondamentale per la sopravvivenza del popolo che viveva nelle campagne dei distinti feudi, mantenne il suo valore di status symbol, tanto che durante il Rinascimento diventò, soprattutto nelle corti, una forma di intrattenimento con dei veri e propri spettacoli animati da cani, trappole ed armi sofisticate.
Ancora oggi nei boschi della Tuscia la caccia è molto praticata ma, rispetto a quel passato, non è più libera e viene gestita da regole ben precise che sono a salvaguardia degli ecosistemi e della conservazione delle specie. Gli appassionati, che ancora si dilettano con quest’arte, hanno la possibilità di imbracciare un fucile soltanto rispettando le leggi e le normative vigenti e solo in zone specifiche offerte dalla Regione Lazio: riserve di caccia, aziende faunistico-venatorie ed aree demaniali solo le uniche in cui è consentito cacciare alcune specie di selvaggina, come cinghiali, caprioli, lepri e fagiani.